Cercasi Regista
Ventotto dicembre. È sempre – o quasi – il ventotto dicembre di ogni anno che succede, che la gente smette di saper contare e si mette comunque d’impegno a tirare le somme. Non importa che manchino ancora quattro giorni al nuovo anno: dal ventotto dicembre in poi, tutti, in pubblico o in privato, cominciano il proprio resoconto dell’anno appena trascorso. Con quali risultati? Si direbbe non proprio incoraggianti, se non addirittura negativi oltre ogni previsione.
La domanda, allora, è come mai? In un certo senso, questo è il periodo dell’anno in cui, in assoluto, è più difficile avere una visione chiara delle cose. Non importa che cosa sia effettivamente successo nei trecentosessantuno giorni precedenti: il ventotto dicembre, la legge che disciplina ogni somma che si rispetti, si vede sospesa dall’insoddisfazione e dalla delusione: cambiando l’ordine degli addendi, il risultato cambia, eccome se cambia. Già perché, se si tirano le somme dal ventotto al trentuno di dicembre, si rischia di far valere soltanto ciò che manca ancora da fare e si finisce per dimenticare tutto ciò che si è fatto in precedenza. Perché? Semplicemente perché è più facile, perché è quasi naturale in un mondo miope come il nostro, ingrandire ed esasperare ciò che abbiamo sotto il naso e trascurare, fino ad ignorare, ciò che avvertiamo come distante.
I buoni propositi di gennaio e i traguardi di aprile sono acqua passata, i progressi estivi appena appena un ricordo, gli sforzi di ottobre, foglie secche. E così sotto l’albero di Natale, rimane solo quello che manca, quello che non c’è.
Negli ultimi quattro giorni di ogni sacrosanto anno per la maggior parte della gente, il solo tempo che rimane è quello trascorso, sprecato o perso. Ecco perché a ridosso della fine – che sia di un anno, una stagione, una vita, un progetto, una relazione, un viaggio (qualunque cosa, insomma!) – tutto, inevitabilmente, si riduce ad una questione ottica: tutto si riduce a cosa vediamo, a come e quanto ci riusciamo.
Per uno studente universitario, poi, il ventotto dicembre arriva anche più puntuale e inaspettato che per chiunque altro: una settimana, o poco più, prima dell’inizio della sessione invernale e in modo così sleale da prenderti letteralmente alla sprovvista. Non viene a ricordarti, infatti, ciò che a fatica saresti comunque pronto ad accettare, e cioè che gli esami sono alle porte e tu non hai neppure cominciato a studiare (o che l’Inverno sta arrivando, per dirla alla Ned Stark): niente di tutto ciò. L’argomento di cui il ventotto dicembre viene a discutere con te, ogni anno, non è il poco tempo che ti rimane, ma tutto il tempo che hai già perso; non i chili che avrai preso, terminate le feste, ma quelli che avresti dovuto perdere, prima che le feste arrivassero. Non quello che si può o si deve ancora fare, ma tutto quello che non è stato fatto, pur essendo in programma.
Ecco che allora, insieme alle somme, lo studente medio comincia a sentirsi tirare anche i piedi. “Non sono ancora riuscito a laurearmi”, “Neanche questa volta riesco a sostenere tutti gli esami”, “Non troverò mai un lavoro”, “Nulla di ciò che faccio mi rende felice o mi interessa” eccetera, eccetera, eccetera. Così, in un attimo, la vita ti si comprime sotto gli occhi, i colori sfumano prima nel grigio e poi nel bianco e nero, fino a che ti ritrovi davanti, a sbarrarti la strada, qualcosa di gran lunga peggiore di un muro: uno specchio. Nessuno può arrampicarsi sugli specchi e sperare di scavalcarli.
Arrivati a questo punto, chiunque tu sia, permettimi di farti una domanda. Sul serio ti sta bene che di questo e degli ultimi anni della tua vita resti solo un enorme archivio di cose vecchie e inservibili, di ricordi muti e in bianco e nero, di rimpianti alternati a rimorsi? Se la tua risposta è no, allora sei proprio la persona giusta per ascoltare quello che ho da dire. Se la tua risposta è un sì, fiacco e rassegnato, allora sei esattamente la persona con cui volevo parlare. Qualcuno una volta ha detto: “Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”. Ecco, allora, lascia che ti racconti una storia perché questo ventotto dicembre non possa dire di aver fregato sia te che me.
Qualche settimana fa, in un giorno come un altro, il mondo intero si è dato da fare per ricordare la Grande Guerra, esattamente ad un secolo dalla sua fine. Per l’occasione Peter Jackson, regista, tra gli altri, del Signore degli anelli e Lo hobbit, si è impegnato in una vera e propria impresa, tanto significativa da passare quasi del tutto inosservata.
Cosa voglio dire? Che le cose veramente importanti, quelle su cui vale la pena fermarsi e riflettere sono, per lo più, quelle che la gente trascura e dà per scontate. Per come va il mondo, oggi, una delle poche certezze su cui si può fare affidamento è che vale la pena pensare solo alle cose a cui nessuno fa caso e a cui nessuno dà peso. Non si scopre nulla di nuovo a cercare sotto gli occhi e il naso della gente. Per notare un dettaglio, cogliere un particolare, avere un’idea, comprendere a fondo qualcosa e persino per essere davvero sé stessi occorre fare il contrario di quello che stanno facendo gli tutti altri.
Torniamo, allora, a Peter Jackson e al suo film They shall not grow old, in italiano Non invecchieranno. A chi non è mai capitato di ritrovarsi ad ascoltare il buon vecchio Alberto Angela che commenta qualche vecchio filmato di guerra in bianco e nero? Ecco, recuperando ore e ore di quel materiale d’archivio, attraverso un restauro accurato e sofisticate tecnologie digitali, Jackson ha ideato qualcosa di più di un semplice film o di un documentario sulla Prima Guerra Mondiale: il suo intento, infatti, è stato quello “di far scoprire agli spettatori cosa significasse vedere la guerra esattamente come la videro i soldati che l’hanno combattuta”.
Ad impressionare, però, per quanto non lo si creda, non sono tanto i contenuti forti, il montaggio perfetto, le voci e i racconti dei veterani: guardando quelle immagini un tempo mute e in bianco e nero, a sorprendere oggi sono i colori. Si tratta di scene che, più o meno, conosciamo tutti, che a tutti, per una ragione o un’altra, è capitato di vedere almeno una volta; ma sempre e solo in bianco e nero.
A colori, siamo capaci di concepire solo la finzione di un film, non la vita reale. Perché? Forse, perché ci siamo abituati a trattare il passato e tutto il male che abbiamo vissuto e ci siamo lasciati alle spalle, come una sequenza muta e in bianco e nero, come un corteo di immagini e sagome fini a se stesse, senza storia, tutte uguali fra loro. Forse ti starai chiedendo per quale ragione insisto tanto sui colori. Chiedilo ad uno studente di medicina che stia preparando istologia o anatomia; ad una persona malata di acromatopsia (cecità ai colori), o ancora a quel compagno di corso che abbiamo avuto tutti e che per studiare ha bisogno di almeno cinque evidenziatori diversi, perché senza non ci capisce nulla.
I colori sono come il nostro nome e la nostra voce: ci distinguono, ci salvano dall’anonimato e ci consentono di fare altrettanto: di dare un nome alle cose che abbiamo vissuto, per quanto doloroso sia stato viverle, e salvarne ciò che di bello e di particolare c’era comunque.
Non importa quale guerra tu abbia combattuto o stia ancora combattendo, quante volte ti sia sentito nulla più che una comparsa senza nome nella tua vita; non importa quanto tempo è passato da quando quel disastro che ti ha sconvolto dentro è finito. Quello che importa è che tu scelga di recuperare i colori, di non cedere al ricatto della monotonia: non invecchiare (come i soldati del film di Jackson), non cedere alla prigione muta e in bianco e nero del rammarico e della sofferenza.
E se proprio non ce la fai e senti di voler cedere, allora cedi la tua storia ad un Regista che faccia la differenza, che racconti anche la guerra che hai affrontato, sì, ma a colori. Fa’ in modo che dentro e oltre le macerie, la guerra e la fine, ci sia la vita, ci sia tu, con la tua storia da raccontare. Non era del film di Jackson che parlavo quando dicevo di avere una storia per te: la storia di cui ti parlavo sei tu.
Ed oggi, ventotto dicembre duemiladiciotto, hai un’opportunità unica: raccontare la tua storia, dalle trincee della fine, senza paura di invecchiare, di cadere vittima del rammarico e del fallimento, di restare muto, di finire in bianco e nero. Com’è accaduto per la Grande Guerra, anche per la sofferenza che hai dovuto patire, in primo luogo ci sono dei responsabili che hanno causato quell’orrore; subito dopo, c’è un autore anonimo che ha fatto quelle riprese, mute e in bianco e nero; poi c’è il regista, che racconta per la prima volta la storia, con i colori.
Forse ti è capitato nella vita di affrontare un dolore, di vivere una devastazione, di conoscere il significato della parola tragedia: a te dico, smetti di far raccontare quella buona storia che tieni da parte – la tua vita – alla guerra che ti ha distrutto dentro, alla sofferenza che ti ha logorato dall’interno. Non lasciare che sia la sofferenza che hai provato a scolorire e silenziare la tua vita.
Cerca un regista, sforzati di trovarne uno bravo, uno di quelli che sappia usare i colori, che non pretenda di cambiare la storia, ma che semplicemente la racconti salvando quei dettagli, quella bellezza che altrimenti sarebbe andata persa per sempre. Non permettere che a raccontare l’anno appena trascorso sia questo ventotto dicembre. E ricorda sempre: per quanto incredibile possa sembrarti, la realtà è a colori, non in bianco e nero.
Chiudo con una citazione che sarebbe piaciuta sicuramente a Peter Jackson. È tratta dal Signore degli anelli, di J. R. R. Tolkien: “Il mondo è davvero pieno di pericoli, e vi sono molti posti oscuri; ma si trovano ancora delle cose belle, e nonostante il fatto che l’amore sia ovunque mescolato al dolore, esso cresce forse più forte”.
È tutta una questione ottica. È tutta questione di cosa scegli di vedere. Per questo ti dico, non fotocopiare in bianco e nero la tua vita. Scegli i colori, trova il Regista. E racconta la Bellezza che disarma qualunque guerra. Così non invecchierai. Così non invecchieremo.
Gionathan